Cosa si intende quando si deinisce una donna, per natura, isicamente più debole? Quale concetto di forza, intesa come ‘forza combattente’, viene qui preso in considerazione, la cui chiarezza ed evidenza non sembra necessitare di alcun ripensamento, soprattutto in relazione ai corpi sessuati? Dove si radica, e che inalità persegue, la convinzione che la forza combattente sia, di per sé, connotato virile, intrinsecamente opposta e non conciliabile con la dimensione della ‘cura’ e l’etica che ne deriva?
Il legame profondo tra costruzione dell’identità maschile ed esercizio della forza viene, nelle nostre culture, letto sovente come conseguenza di un ‘dato biologico’, istintuale, che può tutt’al più essere limitato, contenuto, ma mai superato. Altrettanto ‘naturale’, cioè derivato dalla propria costituzione, sarebbe un sostanziale riiuto, o comunque una minor predisposizione, delle donne ad una espressione della propria corporeità come ‘combattente’ – nelle varie accezioni che questo termine implica. Corpo riproduttivo, caratterizzato da una maggiore disposizione alla ‘cura’, e corpo combattente vengono in questo paradigma visti come termini contrapposti, inconciliabili e attribuibili tendenzialmente a corpi sessuati. Ma è proprio questo il punto di partenza? O, forse, qualcosa di più radicale predetermina già il porsi della questione in questi termini, e non altrimenti?
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